Vi sono momenti nei quali più che una disanima puntuale ed ordinata sulla base della presunta rilevanza dei fatti che si esaminano può essere utile ipotizzare delle piste di lavoro e provare a individuare eventuali possibili intersezioni lasciando alla sperimentazione sul campo il compito di sciogliere i nodi che la mera attività di riflessione non riesce a districare.
Un dato empiricamente rilevabile senza eccessiva fatica anche se difficilmente quantificabile è lo stato diffuso di malessere che sembra riguardare non solo e non tanto il lavoro salariato e in generale le classi subalterne quanto l’assieme del corpo sociale.
Questo stato d’animo si manifesta in maniera evidente nella disaffezione nei confronti del sistema elettorale, nell’utilizzo dello strumento referendario al fine di delegittimare il governo, nella caduta verticale di fiducia nei confronti della rappresentanza politica, sindacale, etc. D’altro canto è interessante rilevare che le istituzioni più pesantemente screditate sono, appunto, quelle elettive, quelle che rispecchiano immediatamente ciò che è il buon popolo e che non si caratterizzano quindi per il prestigio che può derivare dalla distanza.
Permane, invece ed è un problema, una sostanziale fiducia nel nucleo duro dell’apparato statale, in particolare e non a caso la polizia, nella chiesa e in particolare nel suo massimo esponente, in coloro che dispongono di un rilevante potere economico.
E’ quindi evidente che crisi della rappresentanza e crisi del dominio non coincidono e che una massa umana atomizzata e sovente attraversata da fortissime tensioni interne manifesta il bisogno di punti di riferimento stabili e sovente con caratteri autoritari.
Dunque un malcontento che o non trova effettivi punti di applicazione o, laddove ne trovi, si scarica sui settori marginali della stessa società o sui pericoli costruiti dagli imprenditori politici della paura, in primo luogo gli immigrati.
Pure, per sua stessa natura, ciò che suscita questo stesso malcontento non può trovare soluzione se non, se escludiamo provvisoriamente l’espropriazione degli espropriatori, in una radicale redistribuzione della ricchezza a favore delle classi subalterne.
Ma prima ancora che la praticabilità del programma massimo e di quello minimo, il problema oggi è la loro dicibilità, la capacità di porli con forza al centro del dibattito pubblico, l’uscire da pratiche necessariamente ma anche inevitabilmente deboli e di carattere difensivo.
Se noi oggi ci soffermiamo sulle lotte effettivamente esistenti, lotte che spesso hanno un carattere di massa e un’apprezzabile vivacità anche se sono circoscritte a specifici settori non possiamo che rilevare che, proprio per il loro carattere difensivo, anche laddove vincano, non possano che realizzare una vittoria in discesa,un rallentamento dell’offensiva dell’avversario.
Mi permetto a questo proposito di riprendere un mio precedente contributo sulle lotte delle lavoratrici e dei lavoratori dell’Alitalia proprio perché mi sembra un caso paradigmatico, la determinazione dei lavoratori e l’iniziativa politica del sindacalismo indipendente hanno ad oggi costretto l’avversario a rallentare l’offensiva e ad “affidare” ad un referendum fra gli oltre 12.000 lavoratori l’accettazione di un accordo fatto con i sindacati istituzionali.
Un esempio della reale natura della democrazia che lascia i lavoratori liberi di scegliere fra l’accettare un taglio dei salari e dei posti di lavoro, seppur concordato, o la crisi aziendale che porterebbe secondo i fautori dell’accordo ai licenziamenti di massa.
E’ evidente che oggi il passaggio immediato ineludibile è la battaglia per il rifiuto dell’accordo ma è altrettanto evidente che, come abbiamo già detto, solo un allargamento e una radicalizzazione della mobilitazione può portare ad una vittoria effettiva.
E’ su questo tipo di passaggio che si può misurare una prima, provvisoria, ipotesi di lavoro: è possibile immaginare una campagna di massa, articolata in momenti di riflessione teorica, attività di informazione capillare, creazione di strumenti comunicativi adeguati, elaborazione di un vero e proprio mito sociale, comparabile alla battaglia per le 8 ore di un secolo addietro, sullo specifico tema dell’accesso alla ricchezza sociale per le classi subalterne?
Per parte mia non sono innamorato delle formule, quello che serve certamente è però una sinistra sociale, plurale, fortemente radicata, che sappia unire sensibilità diverse su questo comune obiettivo e operi con una capacità d’impatto adeguata in questa direzione.
Non da oggi è assolutamente evidente che una quota parte della nostra stessa classe vive la condizione di sfruttamento in condizioni e secondo modalità non riconducibili a quelle tradizionali. Non mi riferisco solo alla questione, pur rilevantissima, del precariato, del lavoro nero, del lavoro formalmente autonomo e in realtà subalterno, ma anche alla massa crescente dei lavori legati alla ricerca, alla comunicazione, ai servizi di nuovo tipo.
Sulla nuova composizione di classe, nel corso dei decenni, è stata prodotta una massa imponente di letteratura e di ricerca, al punto che si può dire che se non altro ha creato, sia pur indirettamente, occupazione per ricercatori universitari e consimili disoccupati intellettuali, ma non ritengo possiamo accontentarci di questa letteratura.
Si tratta quindi di censire quantomeno le mobilitazioni reali che si sono date nei nuovi settori di classe, di valutarne le vittorie e le sconfitte, di trarne -nella misura del possibile- insegnamenti generalizzabili.
Penso, anche qui faccio solo un caso, alla lotta dei fattorini di Foodora, che tanta fugace curiosità ha suscitato tempo addietro. Ciò che trovo indecente e riprova della reale natura della sinistra mainstream è che, dopo l’eccitazione del momento iniziale, non vi sia stata nessuna riflessione pubblica sulla conclusione e sulle ricadute politiche di quell’esperienza.
A livello più generale si tratta di capire se e come è possibile porre in relazione la mobilitazione dei settori strutturati della nostra classe con questo tipo di lotta.
Per parte mia, sono sempre stato convinto, mi è stato spiegato anche ruvidamente, quando diversi anni addietro ho cominciato a fare del mio peggio, che la partita si gioca in primo luogo nei luoghi centrali della produzione e riproduzione sociale , laddove i lavoratori e le lavoratrici sono fortemente concentrati , dove è quindi più facile far male al nemico, e che intorno a questi punti di forza si aggregano i settori meno strutturati.
Credo per questo non sia il caso di adagiarsi su facili certezze e che sia opportuno domandarsi se e in che misura questa legge generale valga ancora e se non possiamo immaginare altre diverse modalità d’azione.
Quando andiamo alle stesse radici della nostra concezione di un movimento di classe indipendente, troviamo un intreccio stretto e importantissimo fra capacità di produrre conflitto ed esistenza/costruzione di una rete di luoghi dell’associazionismo proletario, del mutuo soccorso, dello sviluppo di vere e proprie controistituzioni capaci di elaborare e, se necessario, di imporre regole del gioco altre ed opposte rispetto a quelle dello Stato e del mercato.
Era proprio quest’intreccio a dare stabilità organizzativa ai settori radicali del movimento operaio, ed è proprio la mancanza di quest’intreccio che spiega il carattere a ondate delle lotte e delle mobilitazioni, e il loro lasciare una debolissima sedimentazione sia in termini culturali che organizzativi.
Chi scrive ha sempre guardato criticamente le ipotesi “artificialiste” di chi immagina che una controsocietà proletaria possa essere “costruita” volenterosamente a partire da imperativi etico-politici.
Ritengo però all’ordine del giorno la necessità di scavare più a fondo, di comprendere in forme adeguate alle questioni che andiamo affrontando, se è possibile vi sia un nuovo mutualismo che si sta già sviluppando, al di fuori del cono di luce mediatico, senza grandi proclami, ma con effettive capacità di pressione e di costruzione di un legame sociale diverso da quello mercantile, statuale.
A proposito di questo possibile intreccio è bene liquidare in premessa un luogo comune potente, in quanto resta della vecchia sinistra e cioè il culto di un proletariato chimicamente puro e separato dalle altri classi subalterne.
In realtà se abbiamo piena comprensione che la proletarizzazione è propriamente un processo, sia nel senso che sempre nuovi gruppi umani vengono ricondotti alla condizione proletaria, sia in quello che la condizione proletaria stessa è sottoposta a continue e radicali modificazioni, veri e propri salti di paradigma, comprendiamo che nel proletariato realmente esistente vi è una massa di saperi, relazioni, culture, che già agiscono nel costituirsi stesso della nostra classe.
Se ciò è vero, ne consegue che il proletariato non è una massa passiva che si limita a reagire alle pressioni della parte avversa, ma un gruppo umano la cui azione concorre a definire il quadro sociale in cui vive e dentro quest’azione gli elementi di mutuo appoggio svolgono un ruolo assolutamente rilevante.
Si tratta, allora, non di inventare un astratto modellino di mutuo soccorso ma di lavorare su quanto già esiste per svilupparne le potenzialità, per porre in rete quante più esperienze possibili, per favorire una dialettica fra mutualismo e conflitto.
Ma, a mio avviso, ognuna di queste ipotesi rimanda a una questione radicale, e cioè alla qualità stessa dell’idea del movimento di lavoratori che andiamo sviluppando. E’, infatti, evidente che il principale punto di debolezza di qualsivoglia sindacalismo, anche del più radicale, è il rischio immanente della caduta nell’attività routinaria, del mero culto della quantità e mero accumulo di forze e risorse, dell’adattarsi all’ordine delle cose per garantirsi una qualche forma di sopravvivenza.
A questo “pericolo” non si può, a mio avviso, rispondere adeguatamente né con richiami moralistici al dover essere né con l’arroccamento identitario, si tratta di accettare la sfida costituita dalla potenza stessa dell’integrazione sociale che non si combatte sottraendosi ma proprio facendo saltare gli schemi, inventando nuove soluzioni, costruendo nuovi linguaggi.
Il massimo di efficacia nello sviluppo del conflitto che è, e non può non essere, il principale indicatore dello stato di salute e dell’effettiva utilità di qualsiasi associazione di lavoratrici e lavoratori, si misura nella sua capacità di sottrarre potere all’avversario, di liberare tempo ed energie, e di sviluppare un sistema di relazioni e un vero e proprio immaginario che ne garantiscano flessibilità, continuità, riproducibilità.
Una scommessa in gran parte affidata, sempre a mio avviso, a nuove generazioni militanti, a cui la vecchia guardia non credo abbia molto da “insegnare” ma casomai il compito di trasmettere strumenti critici, memoria, proposte, provocazioni.
Per riprendere un vecchio motto “la distruzione è comunque un atto creativo” a cui aggiungerei che è la qualità di ciò che crea che dà la misura dell’efficacia della distruzione stessa.
Cosimo Scarinzi